23 lug 2008

L'architettura contemporanea nei luoghi di cura; l'esempio di "Meggie's"


Ho notato che spesso su internet l'architettura può essere assimilata ad altre arti grafiche. La connotazione bidimensionale delle immagini, spesso affascinanti ed impeccabili, rischia talvolta di far dimenticare che un opera di architettura è soprattutto un luogo in cui l'uomo entra, esce, vive, lavora, opera.
Una buona opera di architettura è tale anche quando riesce a condizionare, migliorandole, le sensazioni e le emozioni di chi la utilizza. Partendo da tali presupposti il progetto più difficile è forse proprio quello di un luogo di cura. Spesso gli ospedali e/o le cliniche sono luoghi in cui pazienti, parenti ed accompagnatori trascorrono del tempo, il più delle volte malvolentieri, nell'attesa che migliori una delle cose più preziose di cui l'uomo dispone: la salute. In Italia siamo spesso portati ad associare l'idea di ospedale con quella di un luogo di sofferenza, di privazioni, di malessere. per leggere il resto del post clicca su "read more".
Il più delle volte è così ma l'ospedale dovrebbe anche essere pensato principalmente come un luogo di cura, di miglioramento della qualità della vita, di speranza. Io credo che anche l'architettura può contrubuire al benessere del paziente stimolando ed incrementando le sensazioni positive.
In inghilterra sembra la pensino proprio così. La più grande rete nazionale di cliniche e case d cura specializzate per le cure palliative di pazienti malati di cancro si chiama "Meggie's Centres", in memoria della fondatrice Maggie Keswick Jencks morta di cancro nel 1995. La sua esperienza con la malattia la condusse a formulare l'idea secondo cui le fondamentali esigenze di un malato vanno al di là della malattia ma si riconducono ai bisogni essenziali dell'essere umano.
Vivere uno spazio confortevole pensato per il benessere della persona oltre che del paziente è quindi un modo di migliorare le condizioni psico-fisiche e ristabilire le condizioni per un corretto rapporto con la vita. Meggy's opera con 12 sedi, alcune ancora in costruzione, i cui progetti sono (tutti!) frutto di un accurata ricerca architettonica contemporanea. Gli autori, tra cui non mancano noti nomi come Zaha Hadid, Frank Gehry o Sir Richard Rogers, non hanno prodotto "edilizia ospedaliera" come diremmo dalle nostre parti, ma si sono impegnati per fornire una precisa connotazione architettonica a ciascuno dei 12 centri incentrando il progetto sul concetto di confort sia del paziente, che degli operatori, che dei parenti e visitatori.
Ciò favorisce una maggiore riconoscibilità delle strutture, un maggiore senso di appartenenza del paziente che spesso affida la sua vita nelle mani degli operatori che vi lavorano, un rafforzamento dell'immagine della clinica/casa di cura/ospedale che mostra già all'esterno la qualità e l'innovazione che la contraddistingue. Il prossimo Maggie's Center sarà firmato da Rem Koolhaas.
Nelle immagini il Fife Maggie Centre di Zaha Hadid realizzato in Scozia presso il Victoria Hospital a Kirkcaldy, il Maggie's Dundee presso il Ninewells Hospital a Dundee progettato da Frank Gehry ed inaugurato da Bob Geldof.

7 commenti:

Pietro Pagliardini ha detto...

Ragazzi, che vi devo dire! Il cancro è una malattia troppo seria per scherzarci sopra e pensare che quelle architetture che mostrate possano essere in qualche modo adatte a quei malati, dico la verità, mi sembra lievemente superficiale.
Non conosco la dimensione psicologica di una malato di cancro ma immagino che chi ha progettato quelle strutture pensi che abbia bisogno di una visione falsata dello spazio, di rapporti alto-basso, sotto-sopra, destra-sinistra deformati, di volumi che creano ansia e angoscia.
Può darsi che questo sia giusto, non so dire, ma quelle architetture danno queste sensazioni: tre tetti ravvicinati uno diverso dall'altro, coperture come lame, neanche un attimo di calma e di riposo dell'occhio e della mente.
Mi auguro che chi le ha approvate non si sia fidato del nome del progettista e abbia saputo leggere i disegni, sapendo cosa faceva.
Me la auguro sinceramente.
Saluti
Pietro

Fabrizio Russo ha detto...

Innanzitutto mi complimento con Pietro Pgliardini che ha appena battuto il record di commento istantaneo (appena 20 minuti dopo la pubblicazione del post).
Per risponderti, direi che se il tono del post risulta scherzoso (non mi pare!) me ne scuso e comunque sono daccordo sul fatto che l'argomento meriti la massima serietà. Ribadisco il concetto che che quando c'è in gioco la nostra salute è comprensibile che tutti siamo portati a cercare il medico più bravo che conosce le cure più moderne. Lo stesso vale per l'architettura. L'edificio di cura, deve essere lo specchio della qualità del lavoro che si svolge all'interno. Probabilmente, con tutto il rispetto, abbiamo concetti di qualità molto diversi. A me gli edifici in questione non creano nessuna angoscia e comunque sono convinto che il malato di cancro non abbia bisogno (solo) di calma e riposo, bensì di stimoli che gli facciano apprezzare la bellezza della vita nella sua varietà di manifestazioni, soprattutto in una prospettiva di malattia. Non so se hai avuto il tempo di farlo, comunque ti invito a visitare il sito di Meggie's e ti renderai conto che se hanno aperto 12 centri in un ventennio, vuol dire che quasta ricetta funziona.

cesareee ha detto...

beh... beh... interessantissimi esempi di architettura. Non posso fare a meno di notare un espediente che ghery aveva già utilizzato in casa winton, ovvero quello dell'architettura ludica come "attrazione" per i bambini che vanno a trovare i parenti malati nel caso della clinica, o gli anziani nonni nel caso della winton... nella speranza che visti quei luoghi si ricordino ancora il motivo della visita... :D

PEJA ha detto...

Mi viene in mente una intervista a Giancarlo de Carlo, dove in sostanza diceva che in una sua degenza in ospedale, è stata la cura dei dettagli a salvargli la vita, e l'assenza di ascetismo, la bellezza del paesaggio, e pure dell'edificio. Finalmente si è capito che gli ospedali non sono carceri...

Pietro Pagliardini ha detto...

Sono contento di avere involontariamnete battuto almeno un record in vita mia: medaglia d'oro per caso.
Quanto alla richiesta di rispetto per i malati non mi riferivo a voi ma ai progettisti in genere e a quelli di quelle "stimolanti" opere, in particolare.
Mi rendo conto, rileggendolo, che l'attacco del mio commento suona ambiguo ma questo era ciò che avrei voluto dire.
Saluti
Pietro

Fabrizio Russo ha detto...

No problem.
Può darsi che sia stato io ad equivocare il senso delle tue parole (vista l'ora!).
Credo che prima o poi farò un altro post magari con altri approfondimenti sulle aspettative del malato circa le strutture in cui viene ospitato.
Sarebbe interessante inserire nei questionari che si sottopongono ai pazienti nelle case di cura ai fini della qualità domande tipo: "Crede che la qualità dello spazio architettonico possa influenzare lo stato d'animo dei pazienti?", oppure "Da uno a cinque, quato giudica importante che la clinica in cui Lei viene a curarsi sia architettonicamente ricercata?".

maurizio zappalà ha detto...

Ho impresso nella mia mente,in maniera indelebile,l'angoscia e le risate che mi vennero alla vista di tutti i negozi, veramente una costellazione, di parrucche che campeggiavano nelle strade limitrofe al centro tumori di Milano, alla fine degli '80!Poi, il grande Veronesi, si fece costruire l’istituto europeo di oncologia, un misto bottiano- canelliano, un pò fuori Milano!Che schifo!Senz’anima estetica e quindi, senza qualità! E capite bene che il business non risparmia, ovviamente, neanche la malattia! Comunque, vi sollevo, perchè non ebbi bisogno!!!di parrucca!
Scusate il fuori tema, per me, tautologico!
Allora, perché il progresso concettuale, (in)formale ed estetico che coinvolge il pensiero architettonico degli ultimi 25 anni, non doveva interessare l’architettura, diciamo, ospedaliera (pubblica-privata)? Naturalmente, soltanto in Italia facciamo eccezione!
Oltre all’esempio del post, non vanno dimenticati i casi di J. M. Tomás Llavador vincitore del concorso bandito per l'ampliamento del complesso sanitario - assistenziale Solgarden vicino ad Alicante in Spagna, o l'innovativo CHA e Children's Hospital di Seoul, in Corea che è stato selezionato tra quattro progetti provenienti da tutto il mondo, per vincere il prestigioso American Institute of Architects (AIA) National Healthcare Design Award 2008 e potremmo continuare in avanti o dietro, penso naturalmente, ad A. Aalto e Arne Jacobsen…per esempio!
A qualcuno, di questo post, dico che c’è una creatività sempre incistata nella “diversità espressiva” contemporanea. C’è un bisogno di esprimere mondi altri da quello che abitualmente abitiamo, C’è un desiderio di espandere orizzonti fino alla vertigine del senza-confine. C’è la perla della conchiglia, come vuole l’immagine di Karl Jaspers là dove scrive che: “Lo spirito creativo, pur condizionato dall’evolversi di una malattia, è al di là dell’opposizione tra normale e anormale e può essere metaforicamente rappresentato come la perla che nasce dalla malattia della conchiglia. Come non si pensa alla malattia della conchiglia ammirandone la perla, così di fronte alla forza vitale dell’opera [diversa dalla banale e retorica edilizia ospedaliera!]non pensiamo alla diversità che forse era la condizione della sua nascita”. Insomma, qualcuno fa lo struzzo e si rintana nel passato ma è sotto gli occhi di tutti che l’architettura italiana è malata! E mi piace citare Gaetano Pesce (che giovane, giovane non è!) che ultimamente ha dichiarato: “quando qualcuno o qualche cosa sono ammalati è già un buon punto di partenza per cercare e trovare i metodi e le cure per la possibile guarigione”! Qui, (nel post!) qualcuno scambia il chinino con il viagra! Mi sembra patetico, altro che superficiale, non progettare le strutture sanitarie in chiave contemporanea!Pensate all’oscenità estetica della nostra edilizia ospedaliera, dagli anni ’50 in poi, di semplice retaggio militaresco!Qui dietro la “pacatezza progettuale” si nasconde l’incapacità di progettare il futuro!Ed è insostenibile, magari fossimo al dibattito che c’è in Francia, in Inghilterra, in Spagna, in Olanda, negli U.S.A! Qui,in Italia, parliamo soltanto di “bianco ospedaliero”,di finestra in asse al passo. Ecco dove siamo fermi! Da noi il dibattito sul "look" ospedaliero non è soltanto fatuo ma è proprio un alibi! Siamo al trucco, alla ristrutturazione che passa attraverso la “manutenzione straordinaria”! Non ci vogliono “allattamenti” ma edifici nuovi, cioè soldi, competenze, qualità, che spingano la fantasia degli architetti ad esorcizzare la malattia! Attenti, quindi, alla vacuità passatista che è progettazione non risolta nella sostanza e “allattamento” della forma, in nome e conto del malato che non gli ha proprio chiesto nessun parere!