27 mar 2009

Giovane architetto racconta: Workshop a Seoul 10_20 Gennaio 2009.


Mi fa piacere raccogliere l’esperienza di Valentina Buzzone (27 anni) per tanti motivi, primo fra tutti il desiderio di premiare la perseveranza con cui lei è andata sempre avanti e poi incoraggiare gli altri giovani, soprattutto le ragazze, che si accingono a intraprendere gli studi di architettura.
Valentina è nata a Caltagirone (CT), si è laureata presso la Facoltà di Architettura di Palermo e adesso lavora presso uno studio di progettazione a Roma. Ha partecipato ad un Workshop a Seoul; di seguito vi allego il racconto da lei inviatomi di come questa esperienza la abbia arricchita, fatta crescere e più di tutto motivata.

(testo di Valentina Buzzone).

Quel giorno,come faccio sempre, ho aperto la posta elettronica e tra le varie
e-mail ho letto “ Architettura Catania” etc.
E’ stato grazie al vostro blog che è cominciata questa avventura!

Workshop a Seoul dal 10 al 20 gennaio 2009, saranno selezionati 8 studenti o neolaureati italiani, per la vostra candidatura contattare Claudio etc.
Un po’ per curiosità ma, soprattutto spinta dalla voglia di sperimentare nuove esperienze in campo architettonico, dopo aver preso prima visione del programma, ho mandato il mio curriculum, seppure con qualche remora, considerato il fatto che il mio inglese era molto elementare e al workshop avrebbero partecipato ragazzi non solo italiani ma anche ragazzi della “Westminster University “di Londra e Sangmyung University” di Seoul.
Non avrei mai creduto che avrebbero scelto me, ma qualcosa mi diceva di mandare quel curriculum. Adesso sono grata a coloro i quali mi hanno incoraggiato e permesso di fare questa meravigliosa esperienza, che credo, tutti dovrebbero avere la possibilità di fare.
“Affrontare” un progetto architettonico in una maniera totalmente diversa da quella a cui io sono abituata (cioè quella che l’università di Palermo mi ha insegnato), mi eccitava molto e nello stesso tempo mi impauriva, ma la voglia di conoscere era troppa per non mandare quel curriculum. Dopo pochi giorni ho ricevuto una risposta dall’Architetto Claudio Lucchesi che mi diceva che avrei potuto frequentare il Workshop e che se avevo qualche timore per la lingua l’avrei sicuramente superata, perché “quando si disegna non servono le parole”…! E così è arrivato il giorno della partenza per Seoul e con questo il primo giorno di workshop. Da subito ci hanno diviso in 5 gruppi ognuno dei quali era formato da 3 ragazzi provenienti da Londra , 4 da Seoul e 2 dall’Italia. Il primo è stato un giorno di presentazioni anche se dopo la prima conferenza tenutasi la mattina ci “hanno messi” a lavorare!
Mi sono sempre chiesta se nelle università straniere i metodi di progettazione fossero uguali a quelli nostri o per lo meno uguali a quelli dell’ Università degli Studi di Palermo. Adesso avevo modo di conoscerli! E se anche il tema del workschop ,“ i sistemi parametrici ”, era particolare, perché in un certo senso “ci obbligava” a sviluppare e studiare il nostro progetto in una certa maniera e sotto certi punti di vista, ho comunque costatato che le metodologie di approccio al progetto architettonico non sono poi così differenti tra inglesi, coreani e italiani.
Con il mio gruppo siamo partiti da un’analisi generale del concetto di sistema parametrico per poi orientarci verso uno schema preciso. Quindi dal generale al particolare. Procedimento che ho sempre usato. Sicuramente gli inglesi erano più ferrati riguardo al tema, ma questo perché non era la prima volta che sviluppavano un progetto attraverso questo nuovo metodo. Credo faccia parte del loro programma universitario, differente sicuramente da quello nostro! Ecco, forse in questo le nostre università sono un po’ indietro, dovrebbero mettersi al passo con i tempi, cercare di affiancare a “certe scuole di pensiero” la conoscenza di altre, come quella di Patrick Schumacher, presentata all’undicesima Biennale di Architettura nel suo Manifesto, che poi è quella seguita al workshop. Ma questo probabilmente, deriva dalla nostra storia, dal patrimonio architettonico che ogni giorno abbiamo di fronte.
Lavorare con i ragazzi del mio gruppo è stato molto interessante, stimolante e costruttivo, per nulla faticoso, considerando il fatto che sono stata sempre abituata a svolgere lavori in equipe e a sostenere ritmi pesanti. Come in tutti i gruppi non sono mancati i momenti di scontro, ma non nel senso negativo del termine. Scontro come confronto, che credo abbia portato alla crescita professionale di ognuno di noi. E’ stato bellissimo confrontarsi e mettersi alla prova. Ci siamo dimostrati (coreani, italiani, inglesi) persone aperte, e della nostra diversità siamo riusciti a farne un punto di forza del nostro progetto. Perché mettendo assieme tutte le idee, credo che abbiamo raggiunto un buon risultato. Ognuno ha trasmesso qualcosa all’altro, sia professionalmente che umanamente.

E poi c’erano i professori:
Andrei Yau (University of Westerminster)
Andrei Martin (University of Westerminster)
Claudio Lucchesi (Urban Future Organization, Messina)
HyeongJung Kim (Kaywon School of Art Design)
HungKwon Ko (Suwon Science College)
Jungmook Moon (Sangmyung University)
Professori singolari.
Ci hanno accompagnato per tutto il workshop. Sono stati i nostri maestri. Non c’era giorno che fosse uguale all’altro. Avevi sempre modo di imparare.
Oltre alla fase di ideazione del progetto, all’interno del workshop erano previste delle conferenze-lezioni.
Inutile dire che sono stata veramente colpita dal loro sapere, dal loro modo di trasmettertelo, dalla loro umanità, dalla loro capacità di stimolarci continuamente.
La loro severità nel revisionare il nostro progetto, era accompagnata sempre da una sorta di stupore e contentezza, tutto ciò era stimolante. Nei loro volti vedevi sempre il sorriso, quasi fossero più contenti loro di fare questa esperienza. Era come se avessero modo di imparare da noi. Era uno scambio reciproco. Avevano fiducia nelle nostre potenzialità e cercavano di tirarcele fuori , ogni volta stupiti del risultato!

All’interno dell’organizzazione del workshop, erano previste delle escursioni.
Ho visto svariate architetture contemporanee, anche perché Seoul ne è piena, ma la cosa che mi ha colpito di più tra tutte è il “villaggio di Heyri”. Si potrebbe definire un “experimental place”. Heyri è formato da una comunità di 370 persone, la maggior parte di essi sono artisti, scrittori, scultori, pittori etc. che vivono all’interno di case qualificate da un principio architettonico ben preciso, progettate per lo più da architetti coreani. Ed è straordinario vedere concentrate in un unico posto tutte quelle residenze, diverse per carattere e morfologia. Nessuna dialoga con l’altra, ma messe assieme producono un effetto sconvolgente a mio io avviso. Si potrebbe definire questo villaggio una micropolis. Mai vista una cosa simile.
Sono del parere che per la formazione di un buon architetto sia importante fare tutto ciò, perché vieni messo alla prova, stimolato, la tua mente si apre e ti permette di capire dove sei arrivato e dove puoi ancora arrivare.

IL PROGETTO

Attraverso l’utilizzo del Diagramma 3D di Voronoi e quindi di precisi parametri scelti, abbiamo strutturato la forma del nostro progetto.
La fonte di ispirazione che ha determinato specifici parametri matematici è stato l’ordine naturale del sistema delle bolle”. In particolare abbiamo analizzato l’impianto di aggregazione di queste ultime.
Questi due ambiti e cioè quello naturale e quello matematico così apparentemente diversi si sono fusi attraverso l’utilizzo di un programma di modellazione quale è appunto “Rhino”.
Si sono cosi generati dei piani che sapientemente aggregati fra di loro hanno originato degli elementi geometrici. Abbiamo così determinato le curve di stile per la definizione della forma dell’oggetto.
Sulla base delle osservazioni effettuate sulle bolle si è poi deciso di aggregare fra loro i singoli elementi , ripetendoli, per determinare così delle situazioni spaziali particolari, partendo dallo studio delle singole facce dei piani a quello volumetrico per poi passare ad un’ analisi del sistema di pieni e vuoti .
Contemporaneamente abbiamo pensato agli aspetti costruttivi, per cui gli elementi sono aggregati fra di loro in modo tale che “l’oggetto” possa sostenersi, a quelli funzionali, ed estetico-formali .
La struttura così realizzata può avere svariate funzioni, ad esempio quella di essere utilizzata come allestimento. Il sistema di pieni e dei vuoti da la possibilità di utilizzare gli spazi come “contenitori “, involucri che ospitano opere d’arte, illuminate in modo diverso a seconda di dove si decida posizionare la luce nelle varie facce dei piani che determinano lo spazio in cui alloggia l’oggetto.
Il materiale pensato per la realizzazione del modello è stato il cartoncino di colore nero e come sistema di giunzione dei singoli elementi si sono utilizzate delle viti.
Nella realtà si può pensare anche ad altri materiali per la realizzazione del modello, il tutto dipende dall’utilizzo che se ne vuole fare. Ad esempio per un allestimento avevamo anche pensato all’utilizzo del policarbonato, che essendo trasparente, permetterebbe di fare filtrare la luce in svariati modi, anche grazie alla diversa inclinazione dei vari piani che compongono l’oggetto.

4 commenti:

Walter Quattrocchi ha detto...
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
Walter Quattrocchi ha detto...

questa esperienza possa servire da esempio e speranza a quei giovani che si sentono oppressi da un sistema sociale e professionale locale autoreferenziale e conservatore.E andare fuori per delle esperienze e' ormai fondamentale per respirare idee e approcci nuovi o diversi ,io infatti per pasqua saro'a NEW YORK

Giovanni D'Amico ha detto...

Ben vengano queste esperienze e in generale tutto quello che può arrichire il bagaglio personale.
Nessuno può ritenersi autoreferenziale!!!

maurizio zappalà ha detto...

Secondo me avete, walter e giovanni, un concetto di autoreferenzialità distorto!Tu walter, tu giovanni avete un "valore"? Per me si! quindi siete autoreferenziali! che male c'è!Boh! non vi capisco!